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Dall'empatia alla compassione... per evitare il "burnout".




In questo tempo in cui riceviamo continuamente notizie sull'andamento del COVID-19 e servizi di storie di persone che hanno perso i propri cari o di medici e infermieri stremati dalla fatica, può facilmente emergere in noi una sensazione di sofferenza generalizzata, di dolore persistente, finanche di perdita di ogni speranza e fiducia nella fine della pandemia. Se, poi, siamo medici o infermieri impegnati in corsia, potremmo rischiare davvero di essere travolti dal dolore altrui e andare in quella sindrome che tecnicamente viene detta "burnout".

La “sindrome del burnout” è un tipo specifico di disagio psicofisico. Il "burnout" colpisce in misura prevalente coloro che svolgono le cosiddette professioni d'aiuto ma anche coloro che, pur avendo obiettivi lavorativi diversi dall'assistenza, entrano continuamente in contatto con persone che vivono stati di disagio o sofferenza. In tali condizioni può succedere che queste persone si facciano un carico eccessivo dei problemi delle persone di cui si prendono cura, non riuscendo così più a discernere tra la propria vita e la loro. Alcune delle cause più frequenti di burnout sono: sovraccarico di lavoro, senso di impotenza, mancanza di supporto, identificazione.

Anche se non siamo professionisti operanti nell'ambito della salute o dell'aiuto alla persona, in questo periodo siamo tutt* sottopost* al rischio di burnout a causa del sovraccarico di notizie riguardanti persone/storie di dolore, senso di impotenza rispetto alla pandemia in corso, mancanza di una comunità di sostegno e supporto che ci possa accogliere il nostro dolore, ed eccessiva identificazione con le storie che ci vengono quotidianamente presentate dai media.

Cosa possiamo fare per evitare il burnout?

Le ricerche sul cervello distinguono l'empatia dalla compassione.

L'empatia viene attivata dal meccanismo dei neuroni specchio, che ci permettono di "sentire" quanto l'altra persona sta provando.

La compassione - scrive lo psichiatra Daniel Siegel denl libro Diventare consapevoli - è "accorgersi della sofferenza di un'altra persona, immaginare come poterla alleviare e poo cercare di aiutare la persona a sentirsi meglio".

Difatto una include l'altra, in quanto la compassione presuppone l'empatia.

Aggiunge Daniel Siegel: "la compassione probabilmente non sarebbe possibile senza l'empatia, la quale ci consente di entrare in sintonia con la vita interiore degli altri, con le loro emozioni e con la loro esperienza soggettiva".

Però sentire ciò che l'altro prova (specie se forte e doloroso) può divenire problematico.

Infatti, nel libro La meditazione come cura Daniel Goleman scrive: "Se ciò che sentiamo ci turba, troppo spesso la nostra risposta immediata consiste nel distogliere la nostra attenzione, cosa che ci aiuta a sentirci meglio ma che blocca l’azione compassionevole." Oppure ne restiamo profondamente scolvolti, con un forte senso di impotenza che rischia di gettarci in burnout.

Goleman riporta uno studio svolto presso l’Istituto Max Planck di Lipsia che rivelò un meccanismo cerebrale interessante. Scrive: "quando i volontari vedevano dei filmati di persone sofferenti si attivavano soltanto i loro circuiti negativi per l’empatia emozionale: i loro cervelli, cioè, riflettevano lo stato di sofferenza delle vittime come se stesse capitando a loro stessi. Ciò lasciava in loro una sensazione di turbamento, un’eco emozionale di pena che si trasferiva dalle vittime agli spettatori." Anche la ricercatrice Tania Singer - riporta Siegel nel libro sopra menzionato - evidenzia, dai dati emersi dagli esperimenti fatti con diversi volontari, come "il fatto di favorire lo sviluppo soltando della risonanza emotiva potesse causare sofferenza psicologica". E aggiunge Daniel Siegel: "la risonanza empatica da sola... può portare all'esaurimento psicofisico noto come burnout. Si tratta di una potenziale conseguenza negativa dell'entrare in sintonia con gli altri: rischiamo una identificazione eccessiva". Come possiamo stare di fronte alla sofferenza dell'altro senza venirene trascinati e rischiare di andare in burnout ma trovando modi per aiutare fattivamente l'altra persona?

Daniel Goleman, nel libro La meditazione come cura, riporta di un esperimento svolto dal professore di psicologia e psichiatra Richard Davidson: "I cervelli di alcuni volontari sono stati scansionati prima e dopo due settimane o di addestramento alla compassione (pensare agli altri) o di riconsiderazione cognitiva (una pratica nella quale i soggetti, concentrati su se stessi, vengono istruiti a pensare in modo differente alle cause di eventi negativi). I loro cervelli sono quindi stati scansionati mentre venivano presentate delle immagini di sofferenza umana. Al termine della scansione, hanno giocato al Gioco della redistribuzione, dove all’inizio hanno visto un «dittatore» imbrogliare una vittima dandogli solo un misero dollaro anziché dividere in parti eque dieci dollari. Il gioco consentiva quindi ai volontari di dare fino a cinque dollari del loro denaro alla vittima, e le regole imponevano al dittatore di consegnare a sua volta alla vittima il doppio di quella somma. Ne è emerso che i soggetti che erano stati addestrati nella compassione davano alla vittima quasi il doppio di quanto le veniva donato dai membri del gruppo che avevano imparato a riconsiderare i loro sentimenti. Inoltre, il loro cervello mostrava un incremento dell’attivazione nei circuiti associati all’attenzione, all’assumere i punti di vista altrui e ai sentimenti positivi." Aggiunge poco oltre Goleman: "La coltivazione di una preoccupazione amorevole per il benessere degli altri comporta un sorprendente beneficio senza eguali: assieme alla compassione si attiva anche il circuito cerebrale per la felicità. La gentilezza amorevole rafforza inoltre le connessioni tra i circuiti del cervello per la gioia e la felicità e la corteccia prefrontale, una zona critica per quanto riguarda la guida del comportamento. E quanto più cresce la connessione fra queste regioni, tanto più una persona che segue l’addestramento alla meditazione di compassione compassione diventa altruista." Quindi, se, da un lato, la risonanza empatica ci esaurisce, la compassione, al contrario, produce in noi felicità. E' ciò che proviamo quando per esempio ci dedichiamo al volontariato e abbiamo la sensazione di "aver ricevuto più di quanto abbiamo donato".

Come afferma il monaco e scienziato Matthieu Richard: "Naturalmente, il punto non è sbarazzarci dell’empatia: dovremmo continuare a essere consapevoli delle emozioni delle altre persone. Però abbiamo bisogno di collocare l’empatia nello spazio più ampio dell’amore altruistico e della compassione. Questo spazio sarà una protezione dalla sofferenza empatica. Essendo stati mentali positivi, l’altruismo e la compassione rinvigoriscono il nostro coraggio e ci danno le risorse per affrontare in modo costruttivo la sofferenza altrui."

Ma cosa differenzia la compassione dall'empatia?

Lo psichiatra Daniel Siegel, nel libro citato, pone in evidenza l'importanza della compresenza di capacità di collegamento e di differenziazione dall'altro: non è sufficiente "sentire" l'altro (collegamento); è anche importante mantenere l'alterità dell'altro (differenziazione).

Se elimino il primo aspetto, potrei diventare cinico e freddo; dall'altra, se scompare in noi il secondo elemento, cadiamo nella sindrome del burnout.

L'allenamento mentale tipico della meditazione ci permette, da una parte di creare uno spazio di osservazione interno rispetto alle emozioni altrui che "ci risuonano" dentro, dall'altra (in particolare la meditazione "Metta" o della gentilezza amorevole) le pratiche di allenamento mentale ci permettono di attivare circoli neurali completamente differenti rispetto a quelli attivati dall'empatia emozionale che porta con sè sofferenza psicologica.

Daniel Goleman, in merito allo studio sopra citato svolto a Lipsia, scrive: "Alcuni soggetti sono stati istruiti a condividere le emozioni delle persone che stavano guardando. Tale empatia, come rivelato dagli studi condotti con l’fMRI, attivava i circuiti incentrati su alcune parti dell’insula, circuiti che si accendono quando noi stessi soffriamo. Empatia significa che le persone sentivano il dolore di coloro che stavano soffrendo. Ma quando a un altro gruppo è stata invece insegnata la pratica della compassione – sentire amore per coloro che soffrono – i loro cervelli attivavano un insieme di circuiti completamente diverso, quelli per l’amore parentale di un bambino. Le scansioni del loro cervello erano marcatamente diverse da quelle delle persone istruite a esercitare l’empatia. Il fatto di avere una considerazione così positiva per una vittima della sofferenza significa che possiamo confrontarci con la loro difficoltà e occuparcene." Dagli studi emerge anche che la compassione e la coltivazione della gentilezza favoriscono processi mentali caratterizzati dall’integrazione. Scrive Daniel Siegel: "L’attività di ricerca conferma questa tesi di fondo: essere gentili e compassionevoli nel rapporto con noi stessi e con gli altri aumenta, a sua volta, l’integrazione nel cervello e il benessere nella vita. In parole semplici, gli stati di integrazione diventano tratti di salute."

E, visto che, come scrive Danile Goleman, anche solo dopo otto ore di meditazione della gentilezza amorevole le scansioni presentavano marcate modificazioni del cervello, perchè non dedicarci a questa pratica con assiduità, specie in questo tempo in cui siamo a casa?

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