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La calma... nella tempesta



In questo tempo è facile farsi prendere e sopraffare dalla paura. Ogni giorno riceviamo notizie di nuove persone contagiate dal COVID-19, nuovi paesi dove il virus inizia a diffondersi, immagini di mezzi militari in fila che trasportano feretri, interviste a medici e infermieri esausti, messaggi ripetuti che invitano a restare a casa e ci ricordano le misure di prevenzione da osservare… ed è facile essere assaliti da una paura profonda. Una paura atavica e ancestrale di morire e di non essere al sicuro. Da qui comportamenti ossessivi per ipertutelarsi da un nemico invisibile e percepito come terrificante aggressore che non lascia scampo.

Cosa possiamo fare per far fronte a questa situazione, evitando che la paura ci devasti?

La paura è un sentimento profondamente radicato in noi e universale. Tutti noi vivevamo sereni, protetti e al sicuro nel grembo di nostra madre. Immersi nel tiepido liquido amniotico, tutto era calmo, ovattato, tenue e non avevamo bisogno né di respirare né di mangiare né di essere sull’attenti e vigili; nostra madre si prendeva totalmente cura noi. E in quella perfetta simbiosi eravamo davvero “in paradiso”. Ma un giorno, all’improvviso, con la nascita tutto è cambiato e siamo piombati in un mondo freddo, con suoni assordanti, luci abbaglianti; soffocati dal liquido presente nei nostri polmoni, non riuscivamo a respirare e abbiamo dovuto urlare e piangere per espellerlo; siamo stati separati da nostra madre e abbiamo iniziato ad avere fame: non solo fisica, ma anche di presenza, di affetto e di cura. Abbiamo cominciato a provare paura (e a volte persino terrore) di morire di fame, di freddo, di mancanza di affetto. Quando sentivamo fame, piangevamo. E quando nostra madre si sottraeva dal nostro sguardo, urlavamo disperati. E queste paure (di morire e di restare soli) sono rimaste radicate dentro di noi e si risvegliano continuamente ogni volta che qualche stimolo esterno le sollecita.

In condizioni di vita ordinaria, la paura, quando riaffiora, ha tutto il tempo di apparire e poi scemare naturalmente, dandoci modo di metterci prima in allerta, controllare poi rapidamente la situazione e infine agire di conseguenza per metterci al sicuro oppure per lasciar andare, se ciò che avevamo percepito come minaccioso non era poi così insidioso.

Al contrario in questi giorni non abbiamo questo tempo, in quanto gli stimoli sono troppo frequenti. E la paura, invece che scemare, continuamente viene risvegliata, alimentata e ingigantita; e, così, la tensione psicofisica va facilmente in escalation.

Abbiamo bisogno riprenderci del tempo per “tornare a casa”.

Tornare a casa è un’espressione che prendo dal buddhismo. Poco prima di morire il Buddha disse ai suoi discepoli: “Miei cari amici, non vi rifugiate in nulla al di fuori di voi stessi. In ciascuno di noi c’è un’isola molto sicura in cui possiamo andare. Ogni volta che tornate in quell’isola, che è la vostra casa, grazie al respiro consapevole, creerete uno spazio di tranquillità, di concentrazione e di visione profonda. Se grazie al respiro consapevole dimorerete in quell’isola dentro di voi, sarete salvi. Questo è il luogo in cui potrete trovare rifugio ogni volta che vi sentirete timorosi, incerti o confusi”.

Ecco una prima pratica, suggerita dal Buddha stesso, che possiamo utilizzare ogni volta che la paura ci assale: entriamo dentro di noi, torniamo a casa, nella nostra casa interiore, portiamo la consapevolezza al nostro respiro e seguiamo il suo flusso naturale, allenandoci a mantenere l’attenzione focalizzata solo sul respiro. E, se durante la pratica la mente riprende ad agitarsi e la paura si risveglia, riportiamo gentilmente l’attenzione al nostro respiro. Una, due, tre, cento volte. E magari, per aiutarci e facilitare l’esercizio, ripetiamo mentalmente: “Inspirando, so che sto inspirando; espirando, so che sto espirando”. Nient’altro.

Il senso e lo scopo di questa semplice pratica è ben illustrato da una metafora utilizzata dal monaco vietnamita Thich Nhat Hanh nel suo libro Paura. Supera la tempesta con la saggezza. Egli scrive: “Quando durante una tempesta guardate un albero, vedete che i rami e le foglie sono sospinti violentemente avanti e indietro dal vento impetuoso. Vi sembrerà quasi che l’albero non riesca a opporsi alla tempesta (…) Ma se rivolgiamo l’attenzione al tronco dell’albero, le cose ci appaiono in modo diverso: ci accorgiamo che l’albero è saldo e ben radicato nel terreno (…) Ognuno di noi è come quell’albero. Quando la tempesta delle emozioni ci travolge, non dovremmo fermarci nel punto in cui è più violenta, al livello del cervello o del petto. Se siete sopraffatti da emozioni forti, non restate dove siete: è troppo pericoloso. Spostate l’attenzione in basso, verso l’ombelico – ossia il tronco, la parte più salda del vostro essere – e praticate la respirazione consapevole”.

Questa metafora ci offre un altro suggerimento molto utile. Thich Nhat Hanh scrive: “Quando la tempesta delle emozioni ci travolge, non dovremmo fermarci nel punto in cui essa è più violenta, cioè al livello del cervello o del petto.” Invece questo è proprio ciò che facciamo più spesso, quando sorge in noi la paura: restiamo tra le fronde agitate della nostra mente e guardiamo spaventati il vento che ci agita. Leggiamo e rileggiamo le notizie più e più volte; guardiamo uno, due, tre, quattro telegiornali al giorno; cerchiamo e ingurgitiamo bulimicamente un video dopo l’altro, un post dopo l’altro sui social e commentiamo, rispondiamo, ribattiamo… Restiamo continuamente con lo sguardo fisso e sgomento per ore, giorni o addirittura settimane sempre e solo alla chioma agitata dal vento. E così ci sentiamo travolti, sopraffatti, sconcertati, sconquassati, impotenti.

Sempre nello stesso libro Thich Nhat Hanh ci invita ad avere il coraggio di dismettere queste abitudini tossiche: “Immaginate di guardare la televisione per un’ora. Può sembrare molto poco, ma sappiamo che ci può essere molta violenza e paura, una gran quantità di veleni. In questo modo pratichiamo l’autointossicazione ogni giorno: continuiamo a immettere nel profondo della nostra coscienza un numero ancora maggiore di elementi di dolore e sofferenza. Ci intossichiamo con quello che consumiamo ogni giorno”.

E termina col seguente invito: “Dobbiamo trovare un modo per smettere di consumare queste sostanze intossicanti che alimentano la nostra paura”.

Anche il virologo di fama internazionale Giulio Tarro, in un articolo pubblicato a inizio marzo invocava con urgenza la necessità di “staccare la spina ad una informazione ansiogena e ipocritamente intrisa di appelli a non farsi prendere dal panico”. E spiegava il perché, aggiungendo: “In questi giorni quasi nessuno ci dice che se non ci ammaliamo è grazie al nostro sistema immunitario il quale può essere compromesso dallo stress, che può nascere anche dallo stare in spasmodica attenzione di ogni notizia sul Coronavirus regalataci dal web e TV”.

È fondamentale, quindi, innanzitutto evitare di ingurgitare bulimicamente una notizia dopo l’altra; e poi liberarci dallo stress in eccesso che la situazione sta comunque creando.

Sul mio canale YouTube ho caricato un breve video con alcune semplici pratiche che puoi fare in casa ogni volta che senti il bisogno di sciogliere e lasciar andare. È importante partire dal corpo, sciogliendo fisicamente le tensioni che si accumulano nelle spalle, nella cervicale, nella schiena, nel petto, ecc. e, con movimenti decisi e continui smuovere questi “ristagni di stress”. In seguito, grazie al respiro, scendiamo dalla chioma al tronco, dalla testa all’addome, e restiamo in uno spazio di consapevolezza del corpo per qualche respiro, lasciando andare tensioni e paura ad ogni espirazione. Sono pratiche molto semplici, fattibili anche nella propria stanza o in giardino al sole (sarebbe ancora meglio), che ci richiedono soltanto di essere eseguite e utilizzate ogni volta che sentiamo paura, stress e tensione. Ecco il link dove potete trovare le pratiche: https://www.youtube.com/watch?v=ule7dzmXW3A

Per concludere vorrei riportare il primo dei tre metodi tradizionali che la monaca buddhista Pema Chöndrön descrive nel suo libro Se il mondo ti crolla addosso, e che consiste nello “smettere di combattere”. In questo periodo la narrazione della viremia in corso ha assunto connotazioni belliche, che rischiano di peggiorare la situazione in corso. La stessa rivista Internazionale, in un articolo del 22 marzo scritto dal giornalista Daniele Cassandro, afferma: “La metafora del paese in guerra e del singolo malato-eroe è particolarmente rischiosa nell’emergenza che stiamo vivendo oggi (…) Abbiamo urgente bisogno di nuove metafore e di nuove parole per raccontarci i giorni che stiamo vivendo; quelle vecchie rischiano di trasformare in un incubo non solo il presente ma anche, e soprattutto, il futuro che ci aspetta.”

Invece di lottare contro la situazione, potremmo guardarla in faccia, con atteggiamento non giudicante. Scrive Pema Chödrön: “Possiamo smettere di lottare con quello che si presenta e guardarlo in faccia senza considerarlo il nemico. Aiuta ricordare che la pratica non sta nel vincere o perdere, ma nello smettere di lottare e rilassarsi”. Qesto è un atteggiamento possibile solo se coltiviamo la vipassana, la visione chiara delle cose, che ci rende evidente come tutto passa ed è impermanente. “La pratica della meditazione è il modo per smettere di combattere contro di noi, il modo per smettere di lottare con circostanze, emozioni, stati d’animo (…) Le cose si presentano e scompaiono in continuazione. Questa è la realtà!”.

Buone pratiche.

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