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So-stare di fronte alla sofferenza




Non è facile stare di fronte alla sofferenza propria o altrui.

In noi si innescano meccanismi reattivi inconsapevoli che ci fanno perdere stabilità e lucidità. Mettiamo la testa sotto la sabbia, ce la diamo a gambe levate, spacchiamo tutto come una Furia, speriamo nell'arrivo del Principe Azzurro o di un Messia che ci salverà, diventiamo tuttologi che dall'alto della loro saccenza erogano consigli e soluzioni... pur di non incontrare davvero la sofferenza. E in questa pandamia da COVID-19 lo stiamo vedendo e vivendo proprio tutt*. Chi in un modo e chi nell'altro, ciascun@ di noi sta reagendo, pur di non incontrare la sofferenza.

Ma - come ci ricorda la Prima Nobile Verità del Buddhismo - la sofferenza esiste. Non possiamo eliminarla dalla nostra esistenza nè sfuggirvi. E non è affatto saggio amplificarla.

Scrive Thich Nhat Hanh nel libro Le quattro verità dell'esistenza: "Il Buddha ha usato l’immagine di qualcuno che viene colpito da una freccia. Quando arriva anche la seconda freccia, il dolore non solo raddoppia ma può essere dieci volte più intenso. Dunque, quando siamo in preda alla sofferenza, fisica o mentale che sia, possiamo riconoscerla come tale ma non abbiamo bisogno di esagerarla."

E come la esageriamo? Continuando a pensarci, raccontando a noi stessi o ad altre persone come siamo sventurati e quanto soffriamo, lamentandoci ripetutamente, prendendocela con la vita o con dio, facendo paragoni con altri che invece sono fortunati e stanno meglio di noi, ecc.

Cosa potremmo fare di diverso?

Scrive, sempre nello stesso libro, Thich Nhat Hanh: "Ferma la mente e torna al momento presente con ogni passo e con ogni respiro. Smetti di concentrarti sulle tue preoccupazioni e ansie e lasciale passare oltre. Naturalmente tali preoccupazioni e ansie torneranno comunque, ma puoi limitarti a rivolgere loro un altro «Salve» e «Addio». Non hai bisogno di scacciarle con la forza o combatterle. Non hai bisogno di pensare: “Oh, è terribile, penso troppo a tutte quelle cose!”. Ti limiti a dire «Salve» e «Addio», con gentilezza. Se i tuoi pensieri sono forti, potresti doverlo dire varie volte. Poco a poco il tuo fermarti diverrà più rilassato ed efficace."

Un altro rischio che corriamo, quando siamo di fronte alla sofferenza altrui, è farcene carico, lasciandoci travolgere dalla sofferenza altrui. E questo avviene soprattutto quando siamo personalmente coinvolti, perchè la sofferenza riguarda nostro marito, nostra moglie, i nostri figli, i nostri genitori, parenti, amici, vicini, ecc.

Nel libro La meditazione come cura, Daniel Goleman e Richard J. Davidson scrivono: "Le ricerche sul cervello ci parlano di tre tipi di empatia: l’empatia cognitiva, che ci permette di comprendere come pensano le altre persone, vedendo le cose dal loro punto di vista; l’empatia emozionale, con cui sentiamo ciò che l’altro sta provando; e la sollecitudine empatica (o atteggiamento altruista), che sta al cuore della compassione." E poco sotto così spiegano gli autori: "L’empatia puramente cognitiva non comporta questa partecipazione emotiva, mentre il tratto che definisce l’empatia emozionale è il sentire nel proprio corpo ciò che la persona che soffre sembra provare. Se però ciò che sentiamo ci turba, troppo spesso la nostra risposta immediata consiste nel distogliere la nostra attenzione, cosa che ci aiuta a sentirci meglio ma che blocca l’azione compassionevole."

Ciò che i ricervatori hanno scoperto è che, quando proviamo empatia emozionale si mette in moto un circuito nel nostro cervello che produce in noi turbamento: si attivano i "neuroni specchio" e proviamo la stessa identica sofferenza dell'altro...e questa ci travolge e paralizza. Così, visto che stiamo troppo male a causa dell'eco emozionale della sofferenza altrui dentro di noi, il nostro cervello si focalizza solo sul nostro turbamento e cerca strategie per attenuarlo. Rischiamo, quindi, una chiusura narcisistica/egoica.

Per questo l'empatia emozionale non è mai utile nè funzionale per far fronte alle sofferenze altrui. Occorre superarla e mettere in moto un altro meccanismo: il circuito cerebrale del prendersi cura. E la scoperta interessante dei ricercatori è che bastano anche brevi periodi di addestramento mentale per rafforzare questa rete neurale.

Quale addestramento possiamo seguire?

Nel Buddhismo tibetano esiste una interessante pratica meditativa tramandata proprio per collagarci con la sofferenza nostra e altrui e risvegliare la compassione/empatia innata in ciascun@ di noi: il Tong-Len. Scrive Pema Chödrön nel libro Se il mondo ti crolla addosso: "La pratica del tonglen – dare e ricevere – è una pratica che prevede di assorbire dolore e mandare fuori piacere, e che quindi ribalta completamente la nostra abitudine ben radicata di fare esattamente il contrario (...) È un metodo per superare la nostra paura di soffrire e per sciogliere la durezza dei nostri cuori. Principalmente è un metodo per risvegliare la compassione insita in tutti noi."

Se di fronte alla sofferenza altrui il nostro cervello tende a scappare (negando/minimizzando oppure focalizzandosi su di sè), la pratica del Tong-Len ci allena ad aprirci alla sofferenza senza che questa ci travolga, trasformandola, attraverso il respiro, in un flusso di dare e ricevere compassionevole e senza limiti.

"Questa è l’essenza della pratica: inspirare il dolore degli altri in modo che possano stare bene e avere più spazio per rilassarsi e aprirsi – espirare, inviando loro quiete o quello che sentiamo potrebbe portare loro sollievo e felicità" scrive Pema Chödrön nel sopra libro citato. E prosegue: "La pratica fa crollare il muro che abbiamo costruito attorno ai nostri cuori. Fa crollare gli strati di autodifesa che abbiamo cercato di creare così accanitamente. Nel linguaggio buddhista, si direbbe che dissolve l’attaccamento e l’aderenza dell’io. Il tonglen ribalta la logica abituale di evitare la sofferenza e cercare il piacere. Nel processo, ci liberiamo di modelli antichissimi di egoismo." Il Tong-Len ci libera dal rischio di una chiusura narcisistica, causa dell'aumento della sofferenza nostra e altrui. In effetti anche le neuroscienze hanno evidenziato come l'aderenza dell'io generi un inutile aumento della sofferenza (o sofferenza aggiuntiva) che incrementa il nostro malessere. Per questo - scrive Goleman nel libro La meditazione come cura - "le tradizioni meditative di ogni tipo condividono un obiettivo: allentare quella continua presa – l’«adesività» dei nostri pensieri, delle emozioni e degli impulsi – che ci guida nelle nostre giornate e nelle nostre intere vite. Questa intuizione chiave in termini tecnici è chiamata «dereificazione»." E prosegue Goleman: "l’addestramento mentale riduce l’attività del nostro «io». Il «me» e il «mio» perdono il loro potere autoipnotico; le nostre preoccupazioni diventano meno gravose. Quanto più il nostro rapporto con l’io si farà leggero, tanto meno ci angosceremo". La pratica del Tong-Len, infatti, allarga la nostra attenzione da una persona che ci sta a cuore ad altre che come lei stanno soffrendo e poi a chiunque nel mondo ora si potrebbe trovare in una simile sofferenza e poi anche agli animali e a tutti gli essere senzienti che soffrono... così che la nostra compassione sia completamente priva di ogni narcisistica traccia di "mio" (mio figlio, mio marito, mia moglie, mio padre, mia madre...) e si riversi incondizionatamente su ogni essere che in questo momento sta soffrendo: “Con l'inspirazione dite: Che io possa sperimentare questo dolore, in modo che nessun altro al mondo debba soffrirne’, E con l'espirazione ripetete mentalmente: Dono ogni cosa bella, ogni sensazione di felicità e benessere, ogni istante di gioia, affinché tutti possano goderne." (Pema Chödrön, Senza via di scampo).

Qui di seguito trovate il link del mio canale YouTube sul quale ho caricato una diretta facebook in cui ho condotto la meditazione Tong-Len: https://youtu.be/j19FFjzhVv8

Buona pratica Tong-Len!

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